Questa è la storia di come una delle più importanti squadre del panorama calcistico italiano ha deciso di mollare la presa, lasciandosi trasportare dal corso degli eventi. Un racconto breve che, attraverso cinque atti, mostra come la Fiorentina sia, ad una giornata dall’inizio del girone di ritorno, scivolata a undici distanze dalla zona Europa. La stessa squadra – anche se si capirà poi che non è così – che una stagione fa non solo stazionava al sesto posto, ma aveva ben otto punti più di adesso. Si accendono le luci.

Atto I: la proprietà. Doverosa è la distinzione, all’interno della società, con la dirigenza, che avrà uno spazio a lei dedicato. Questa sezione della Fiorentina conta, in realtà, pochissime figure che, a causa della loro presunzione e arroganza, hanno illuso i propri tifosi di “voler fare meglio dell’anno scorso”. Naufragati, loro stessi per primi, in un mare di polemiche e critiche, senza mai un tentativo di autovalutazione, nella misura di chi crede di poter tutto, ma finisce per fare la figura di Don Chisciotte con i mulini a vento. Le battaglie contro i procuratori, si dirà, una delle tante campate in aria senza un reale riscontro, o tornaconto, per la propria squadra.

Atto II: la dirigenza. Costretta ad accontentarsi, a ripiegare sui profili da “15 milioni”, a ritrattare sulla comunicazione e a far passare i Mandragora per i Torreira. Le sostituzioni estive vengono fatte passare per aggiunte, quando è chiaro che “un Odriozola non ci può entrare nel taschino di un Dodo”. Le scommesse, quelle appariscenti, sabotate dagli stessi interessati, scarti di un club troppo grande per regalare potenziali fuoriclasse.

Atto III: l’allenatore. Questa è stata la scena più breve e facile da girare. Il regista, che è lo stesso del prequel, ha avuto il solo difetto di aver firmato per il suo stesso ridimensionamento. Si prova a cambiare inquadratura, ma le risorse sono insufficienti per gli effetti speciali che avevano lasciato a bocca aperta il pubblico. Il botteghino piange (ed elegge il burattino a burattinaio).

Atto IV: i giocatori. Il cast de ‘Il Primo Italiano’ è stato solo parzialmente modificato, ma i nuovi figuranti hanno il gravoso compito di non far rimpiangere chi ha lasciato quell’eredità. Gli exploit non sanno ripetersi, la loro magia è finita, dissipata tra i riflettori di alibi di una stagione strana e mai vista prima. Gli attori in scena sono soltanto i conseguenti artefici del decadimento della commedia: adesso pochi sorrisi e mai la sensazione di una reale unione d’intenti.

Atto V: i tifosi. Abbattendo la quarta parete, anche il pubblico fa la sua comparsa in scena. Rumoreggia sin dagli albori dell’Europa ritrovata, accusando quel sentore di chi sa di aver già visto abbastanza, e forse pure fin troppo. Allora, si siede, si rilassa e si abitua – inesorabilmente – alla mediocrità. Sicuramente quella di una società che manca di un convincente progetto sportivo, ma purtroppo anche di una piazza che non dovrebbe mai accontentarsi di navigare a mezza vista (lo dice la storia). Ma il biglietto non è rimborsabile, l’unica cosa che può fare è lanciare i famosi pomodori. Provando a centrare il reale colpevole di questa tragedia (dal greco, τραγῳδία, "canto dei capri"). Si spengono le luci.


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