Riprenderanno gli allenamenti, forse. Come e quando lo vedremo. Il calcio, in questo momento, sta facendo la figura che merita. O meglio, la figura che si è costruito in questi anni. E’ stato l’ultimo mondo a cedere all'emergenza sanitaria, i cui esponenti hanno parlato in modo ridicolo. Si sono volute giocare partite con stadi pieni (con il rischio di contaminazione allucinante, come qualcuno sta ventilando in questi giorni), poi a porte chiuse (con calciatori che si sono attaccati il virus a vicenda), lanciando messaggi ridicoli, come quello di Gasperini che ha detto che era giusto continuare a giocare a porte chiuse. Poi sono girate immagini come quella del bacio di Buffon a Dybala dopo il gol all’Inter, in una partita finta, senza gente, con tutta Italia che guardava attonita, che si schifava per il mancato senso civico del portiere campione del mondo. Lui, proprio lui che avrebbe dovuto dare l’esempio.

Oggi il calcio è l’unico sport che trasmette messaggi di ripresa, salvo cambiare continuamente versione: riprenderemo il 26 aprile, anzi no il 15 maggio, meglio forse il 5 giugno. Il presidente della Figc parla ogni giorno, due volte, prima e dopo i pasti, stile medicina. Più di Conte, non l’allenatore ovviamente, ma il presidente del Consiglio. Stessero un po’ zitti tutti sarebbe meglio, almeno per rispetto di una paese che è in ginocchio, con gente che sta morendo, e per una regione (la Lombardia) che chiede soltanto aiuto.

La parte buona, come al solito, la fanno i calciatori. I protagonisti. Attivissimi nella solidarietà, nel dispensare ottimismo e compagnia sui social network, esprimendo anche concetti intelligenti. Ci stiamo accorgendo che non sono tutti superficiali, che hanno anche altri interessi, che hanno un cuore. E che sono molto più semplici di come ce li fanno immaginare. Perché il giochino è tutto lì: creare degli idoli da incensare e poi crocifiggere, da muovere come un flipper a suon di miliardi, da usare come carne da macello. Perché il sistema li vuole così, perché in fondo fa comodo. Ma senza di loro, e senza la gente allo stadio, il gioco finisce. Ci faccia riflettere questo. Ci faccia tornare a capire, se mai un giorno ripartiremo, che dovremo ricominciare con regole nuove. Che non è vero che lo show va avanti per forza. Che anche noi, pubblico, spettatori, tifosi, abbiamo un ruolo importante. Anzi determinante. Senza di noi il circo si ferma. Si fermano gli ingaggi milionari, si fermano le partite negli stadi, si fermano le televisioni. Forse solo adesso ci accorgiamo della nostra importanza. Ci accorgiamo che una partita senza pubblico non ha senso di esistere, non è più calcio. Che il pallone è amore, amicizia, condivisione. Abbracci, baci, prese di giro. Tutte cose che oggi, chiusi in casa, non possiamo più permetterci.

E allora cominciamo a pensare ad uno sport più giusto. Dove non vince solo chi ha più soldi, dove le televisioni non foraggiano solo e soltanto l’Agnelli di turno, dove i bacini di utenza vengono fatti dalla passione, non dagli interessi. Dove gli opinionisti della domenica ritrovano un po’ di coraggio, voltando le spalle al potere. Dove Ronaldo guadagna tanto, tantissimo, ma non un milione, bensì cinque milioni di volte quello che guadagna un chirurgo. Questa non è più una forbice, non è più un merito, non è più giusto. Il mondo cambierà e noi cambieremo. E il calcio dovrà cambiare, grazie anche ai nostri comportamenti. Altrimenti, davvero, possiamo farne tranquillamente a meno. Possiamo giocare in un parco, dedicarci ad altro, vivere in modo più semplice e più genuino. Facendo rotolare il pallone, come accadeva un tempo. Senza appiccicate sopra le banconote, senza accoltellarlo ogni domenica come stavamo facendo ormai da decenni.


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